Storia dei videogames: la crisi del 1983 del mercato dei videogames
Il mercato dei videogiochi non è mai stato tanto florido quanto nell’ultimo decennio, arrivando a fatturare diversi miliardi di euro all’anno tra hardware e soprattutto software (sia digitale che fisico).
Eppure c’è stato un momento, a meta degli anni 80, in cui questa macchina per fare soldi si ruppe improvvisamente e ci vollero diversi anni per farla ripartire: stiamo parlando della crisi del mercato dei videogiochi del 1983, conosciuta in Giappone come “the Atari Shock“, a causa delle gravi ripercussioni che ebbe sulla casa americana produttrice di console e arcade, allora una delle principali esponenti nel mercato.
La crisi si abbattè principalmente sui mercati del Nord America e del Canada, sfiorando appena il mercato Europeo (allora ancora molto meno ampio di quello attuale) e lasciando intatto quello Giapponese, forte soprattutto delle grandi proprietà interne; le conseguenze furono così gravi che molte delle case storiche furono costrette a chiudere per fallimento e per molti anni il mercato risultò sostanzialmente stagnante e con la presenza di pochissimi titoli validi.
Ma quali furono le principali cause di questo crollo?
Le cause del crollo del mercato nordamericano delle home console
Per andare ad analizzare quali furono le cause principali della crisi bisogna prima ricordare che nel anni ’80 il mercato dei videogame era strettamente legato a titoli arcade (i classici cabinati da sala giochi per intenderci) e alle home console quali Atari 2600, Colecovision, Atari 5200, Mattel Intellivision solo per citarne alcune, su cui i primi produttori di titoli erano le case madri stesse.
Esattamente come avviene per qualunque giocattolo, nel caso in cui i titoli distribuiti ai vari venditori fossero rimasti invenduti, la casa produttrice era obbligata a recuperarli e a sostituirli con altri in un processo che si conclude solamente quando tutte le scorte sono state smaltite; con un sistema del genere è ovviamente necessario che il ciclo si concluda il più in fretta possibile onde evitare l’accumulo continuo di spese di rientro e sostituzione.
Già dagli inizi degli anni 80, le varie case produttrici, saturavano il mercato con titoli fotocopia una dell’altro, spesso riutilizzando tecnologie già applicate a titoli di successo quali Pac Man e la sfida veniva fatta principalmente a colpi di scontistiche esagerate e che rovinavano la marginalità di guadagno sulle singole vendite.
Diciamo quindi che il mercato di per se stava già vivendo un momento di stallo, in attesa di una scossa che arrivò tanto insaspettata quanto violenta.
1) La messa in commercio dei primi Personal Computer
A partire dal 1981 e sino al 1985 ci fu un vero e proprio boom della vendita dei primissimi personal computer, grazie allo sviluppo incredibile dell’ ingegneria informatica, che permetteva ogni anno di avere pc più potenti e meno cari.
Nel 1980 un personal computer costava circa 1000 dollari mentre negli anni successivi poco più di 400.
Uno dei primi esempi di pc casalingo di grande successo fu il famosissimo Commodore 64, che non solo permetteva di emulare le prestazioni di gioco delle più famose console, ma aveva in più tutta una serie di funzionalità adatte allo studio e all’apprendimento dei ragazzi.
Il lancio di questi dispositivi venne inoltre seguito da campagne di marketing altamente aggressive volte a ritagliarsi una fetta dell’home gaming a discapito delle case produttrici di videogiochi, Atari e Mattel su tutte, che vedevano le proprie vendite diminuire sempre di più.
Una delle più famose pubblicità del tempo del Commodore 64 recitava: “Perché comprare una console a tuo figlio distraendolo dalla scuola, quando potresti comprare un computer che lo preparerà al college?”
Si accese subito una competizione spietata per salvaguardare un mercato che di fatto veniva ulteriormente saturato da nuove proposte tecniche ma senza una reale innovazione in materia di tipologie di giochi e di qualità.

Una delle tante pubblicità comparative del Commodore 64
2) Il caso Activision e il crollo delle console
A peggiorare la situazione dei produttori di console, si aggiunse quello che viene definito il caso Activision.
Nel 1979 alcuni dei principali sviluppatori che lavoravano per la Atari, si misero in proprio fondando la Activision dopo dissapori nati con la casa americana a causa del fatto che questa non permetteva, come molte altre, l’inserimento nei titoli di coda dei nominativi delle persone responsabili della creazione di un gioco.
Oltre a ciò non venivano riconosciuti ai dipendenti nessuna royalti sulle vendite dei giochi che avevano creato.
Gli sviluppatori che fondarono la Activision iniziarono a produrre in proprio, grazie al pregresso know how, videogiochi compatibili con le console di marca Atari senza che questa riuscisse a bloccarne la vendita per vie legali; anzi nel 1982 perse la causa legittimando a chiunque di poter creare titoli per le sue piattaforme.
Moltissime aziende non si fecero perdere l’occasione e iniziarono a sfornare titoli, uno più brutto dell’altro, che andavano in competizione con i titoli ufficiali e che portarono, per il meccanismo di ritiro del non venduto descritto prima, ad un aumento delle giacenze di magazzino e ad un crollo delle vendite.
Di fatto l’offerta superava di gran lunga la richiesta, già diminuita per l’avvento del mercato dei personal pc.
In questo scenario si colloca il famoso caso delle cartucce di E.t. invendute e sepolte nel deserto da parte di Atari (sepoltura confermata solo recentemente a più di 20 anni dal fallimento).
3) La guerra dei prezzi pazzi
Mentre Atari e Mattel vivevano il loro momento buio sulle console, sul mercato dei personal computer si accese la competizione dei prezzi.
Incapaci di prevalere per qualità dei titoli o funzionalità, le diverse società produttrici di pc si diedero battaglia a furia di sconti e controsconti, devastando di fatto i propri conti bancari e quelli della concorrenza.
E’ rimasta celebre una frase scritta da David Ahl, fondatore di Creative Computing, una delle primissime riviste di settore:
“Nel gennaio 1983, Jack Tramiel, direttore della Commodore, taglia i prezzi del Vic a 139 dollari e quelli del C64 a 400. La Texas Instruments reagisce un mese dopo con un ribasso, che porta i prezzi del 99/4A a $149. Tramiel risponde, porta il Vic a meno di 100 dollari, costringendo la TI ad annunciare un ulteriore taglio nel prezzo del 99/4A a 100, a partire da giugno. Il 10 giugno 1983 TI annuncia la più ampia perdita nella storia della corporazione, tre mesi dopo si ritira dal mercato degli home computer. Tramiel, che ancora cerca quote di mercato, ribassa il C64 a 200 dollari e vince virtualmente la stagione dei grandi acquisti natalizi per il secondo anno di fila.”
Non fu solo la Texas Instruments a fallire, ma la stessa sorte toccò anche alla Coleco (con il suo Coleco Adam) e alla Sinclair Research e a moltissime altre case produttrici minori.
L’Atari, allora di proprietà della Warner, rischiò nel 1984 la bancarotta e venne immediatamente messa in liquidità mentre la stessa Commodore, spaventata dai buchi di bilancio prodotti dalla guerra dei prezzi, licenziò lo stesso Jack Tramiel, colpevole di aver condotto la società lontano dal mercato del semplice home computing (lo stesso acquisterà poi in seguito proprio l’Atari).
4) L’effetto abbondanza
La presenza sul mercato di nuovi competitor , con nuove piattaforme di gioco e nuovi titoli, ebbe sui consumatori un effetto di blocco totale sulla capacità di scelta.
Troppa abbondanza fece si che i videogiocatori non sapessero più quale piattaforma acquistare e soprattutto la carenza di titoli innovativi, spesso non compatibili tra due generazioni della stessa console, portarono al blocco totale del mercato delle vendite di videogiochi in America.
Paradossalmente questo favorì i titoli da bar e da sala giochi che nel 1983 videro il proprio boom con l’avvento per esempio della tecnologia dei laser disc.
Le case produttrici si erano fatte in pochi anni una guerra sfrenata cercando di conquistare fette di mercato sempre più sottili, non investendo in modo adeguato sul fattore evoluzione del gameplay e originalità.
Nel 1982 il mercato dei videogiochi negli Usa valeva 3.2 miliardi di dollari, nel 1985 solo 100 milioni.

La celebre immagine del ritrovamento delle cartucce di ET invendute e sepolte da Atari
La ripresa e gli effetti a lungo termine
La crisi del mercato dei videogiochi americana vide la sua fine solamente nel 1987, quando la Nintendo iniziò a produrre la sua console casalinga a 8-bit, il Nes, anche fuori dal Giappone.
Le esportazioni andarono così bene che l’interesse per le console casalinghe riesplose, segnando dopo tanti anni una ripresa delle vendite di titoli a prezzo pieno e un calo delle presenze nelle sale giochi.
Leader del mercato erano a questo punto non più le grandi case americane, ma le molto più coraggiose giapponesi Nintendo e Sega che iniziarono a produrre titoli nuovi e a fornire ai videogiocatori esperienze che non avevano ancora vissuto.
La crisi del 1983 ebbe quindi come prima conseguenza quella di spostare dall’America al Giappone il principale polo di produzione di console casalinghe dedicate al gaming, con una ripresa americana solamente nei primi anni 2000 grazie al colosso Microsoft.
La seconda conseguenza è che vennero implementate delle regole di controllo sulla possibilità da parte di produttori terzi di sviluppare titoli per una piattaforma (regole ancora in atto per altro); Nintendo impose un numero massimo di titoli sviluppabili esternamente consentendo così che non venisse nuovamente saturato il mercato e pretese che venissero pagati dei diritti di sviluppo in modo da poter garantire sempre una qualità altà.
La situazione attuale e le similitudini con il 1983
Parlare di una crisi nel 2018 per il mercato dei videogiochi, che ha fatturato lo scorso anno poco meno di 100 miliardi di euro, sarebbe abbastanza prevenuto però è anche vero che si stanno verificando molte similitudini con la situazione di allora:
- titoli sempre meno innovativi con l’avvento di sequel e remastered
- proposta single player sempre più trascurata a favore di meccaniche multiplayer sempre uguali
- avvento del multipiattaforma con conseguente diminuzione di esclusive
- presenza dominante del digital delivery e della possibilità di commercializzare a basso costo titoli indie di dubbia qualità (ndr Steam fai qualcosa)
- riproposizione sino allo sfinimento di meccaniche di successo
- ecc ecc ecc
Staremo a vedere, nel dubbio ci resta sempre il retrogaming!
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